Il 17 giugno 1881 Lidia Poët, davanti a un’immensa folla plaudente, si laurea in Legge all’Università di Torino. Ha ventisei anni, intelligenza e coraggio da vendere, ed è determinata ad arrivare dove nessun’altra era ancora mai riuscita: diventare avvocata. Due anni dopo termina la pratica, sostiene brillantemente gli esami per l’iscrizione all’Albo, qualcuno nel Consiglio dell’Ordine storce il naso, ma la maggioranza la sostiene. Ce l’ha fatta, è lei la prima avvocata d’Italia. Ma la conquista sarà effimera: il Procuratore del Re impugna l’iscrizione davanti alla Corte d’appello di Torino, che dichiara che le donne non possono esercitare l’avvocatura. Lidia si prepara al ricorso in Cassazione, mentre l’intero Regno attende col fiato sospeso la sentenza definitiva. Tutti i giornali, i giuristi, le femministe, i politici durante quei mesi non parlano d’altro: chi è a favore, chi è contro, chi precorre i tempi e chi rimane ancorato al passato. Ne emerge una polifonia di voci, l’affresco di un’epoca fervida e contraddittoria e, soprattutto, il ritratto di una donna straordinaria, che con la sua tenacia e il suo ingegno ha dischiuso la strada a tutte le colleghe del futuro.
Lidia Poët. La prima avvocata
di Ilaria Iannuzzi e Pasquale Tammaro
Editore: Edizioni Le Lucerne240 pagine
Uscita: 17 maggio 2022
Conoscevo già la figura di Lidia Poët, ammirandone da sempre la tenacia e il coraggio nel fare da apripista nella professione dell'avvocatura femminile.
Quando ho adocchiato questo libretto sulla scrivania di un collega, non ho potuto non portarglielo via per leggerlo.
Premesso che non apprezzo il termine "avvocata" (uno dei soliti contentini ipocriti che ignorano quale sia la realtà concreta: per quanto mi riguarda, dopo 25 anni trascorsi a lottare per essere chiamata "avvocato" e non "signora", col cavolo che mi faccio di nuovo discriminare/differenziare per la felicità di qualche purista della lingua), si tratta di un ricco e interessante lavoro di ricerca.
La Poët, si iscrisse all'Università di Torino nel 1878 e il primo giorno un professore con molta benevolenza le chiese se voleva "una sedia e un tavolino a parte", come se il suo corpo non fosse adatto ai banchi ordinari.
In seguito, questa "incompatibilità" dell'indole femminile, così fragile e sensibile, restò l'eccezione principale per attaccarla, anche dopo che si laureò a pieni voti, con una tesi sul diritto delle donne a votare, e completò la pratica, ottenendo l'iscrizione all'ordine, presto impugnata dalla Procura del Re e cancellata a colpi di sentenze, mentre l'opinione pubblica si spaccava.
Ciò che si contestava alla giovane professionista (di confessione valdese, perciò più aperta e libera rispetto al rigore della donna-casa-madre di tradizione cattolica) era la pretesa di arrogarsi un titolo pari agli uomini, tradendo una posizione di natura "a cui era destinata dalla Provvidenza divina", esercitando un "ufficio dei maschi, nel quale non dovevano punto immischiarsi le femmine".
Alla fine, dovette attendere il 1919, post prima guerra mondiale e relativi stravolgimenti sociali, per potersi iscrivere ed esercitare.
Questo breve saggio ripercorre la situazione dell'epoca, l'assenza di tutele lavorative e sociali, nonché l'acceso dibattito scatenato da una signorina gentile, ma piuttosto battagliera, attraverso stralci di articoli, editoriali e testimonianze.
Troviamo poi gli scritti veri e propri di Lidia, che ce la fanno conoscere davvero da vicino: la (illuminante) dissertazione di laurea e gli atti giudiziari della causa che la vide contrapposta alla Procura e ai giudici, con le (altrettanto illuminanti) memorie difensive.
Libretto da tenere in libreria, non solo se siete avvocati.
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